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CESARE PAVESE: LA DONNA, LA VITA E LA MORTE
Diciottesima rassegna di saggi internazionali di critica pavesiana a cura di ANTONIO CATALFAMO
Anno: 2018Pagine: 200 Prezzo: € 15,00 ISBN: 9788899775537 Codice catalogo: 627 Collana: I Quaderni del CEPAM-Centro Pavesiano Museo casa natale Ambito di ricerca: Letteratura e critica letteraria [+] acquista INDICE
Introduzione;
L’universo simbolico di Paesi tuoi (Antonio Catalfamo);
Antinomie pavesiane nella «trilogia» La bella estate (Antonio Catalfamo);
Cesare Pavese, uomo laico, ma religioso; antifascista ma profondamente turbato dalla guerra fratricida; traduttore, ma non traghettatore (Franco Ferrarotti);
Il serpente che si morde la coda: Eros e Thanatos nei Dialoghi con Leucò (Daniel Del Percio, Nora Sforza);
L’Islandese e Meleagro: due riflessioni ontologiche a confronto (Marta Mariani);
Feria d’agosto: tra testo e paratesto (Hanibal Sta˘nciulescu);
Preludio, contrappunto e fuga per due figure dissonanti. (Una lettura di Fuoco grande) ( José Manuel de Vasconcelos);
Il carcere insegna a star soli. Esilio fisico ed esistenziale in Cesare Pavese (José Abad);
Un ambiguo sorriso. Attorno al Carcere di Cesare Pavese (Massimiliano Cappello);
Illustrazioni e copertine dei libri pavesiani (Višnja Bandalo).
DALL’INTRODUZIONE
In varie occasioni abbiamo definito (al pari di altri critici avveduti) la poetica di Pavese «realismo simbolico», nel senso che il Nostro parte dalla realtà, che pure conserva la sua autonomia sul piano narrativo, e, per mezzo di un’analisi razionale di essa, condotta attraverso un processo di «interiorizzazione», perviene al significato ultimo dell’esistenza umana, individuale e collettiva, approdando ad una visione «mitica», senza rimanere, però, prigioniero nel labirinto dei miti, pronto a mettere continuamente in discussione i risultati analitici raggiunti e a rivedere la sua poetica. Gli uomini, le donne, i paesaggi, conservano una dimensione reale e, nel contempo, ne acquisiscono una mitica. Così la donna (per tornare al titolo del presente volume) viene raffigurata nella sua dimensione esistenziale (legata ai vari «contesti»: donna di città e donna di campagna) e, nello stesso tempo, è partecipe del «mito», è concretizzazione di esso. È manifestazione di quella carica sessuale che domina il mondo, affondando le radici nei secoli, anzi nei millenni, e che è ben colta dalla mitologia greca in tutti i suoi connotati: carica creativa e distruttiva, fonte di vita e di morte, manifestazione di «Eros» e «Thanatos». Da qui il rapporto complesso, che Pavese instaura, nelle sue opere, con la donna e con la natura, con la quale, al pari di Leopardi, ingaggia un “corpo a corpo”, senza soluzioni consolatorie. Ci riferiamo sia alle opere letterarie, sia alle “opere teoriche” del Nostro (i saggi intorno al «mito» ch’egli scrisse e che furono opportunamente raccolti da Italo Calvino ne La letteratura americana e altri saggi), nonché agli elementi «paratestuali» che emergono, per esempio, da Feria d’agosto. La donna diviene anche proiezione del dramma esistenziale di Pavese, nell’ambito di quel fenomeno del «travestitismo letterario», che, con particolare riferimento a La bella estate, è stato approfondito dalla critica anglosassone. Donna reale e, insieme, donna «mitica» – dicevamo –, come le donne che Pavese ha incontrato nel corso della sua vita e alle quali ha attribuito, nella trasfigurazione letteraria, valenza simbolica. Tina Pizzardo e Bianca Garufi (nell’ultima fase Constance Dowling), con la quale ha scritto a quattro mani il romanzo Fuoco grande, che, sebbene incompiuto, suggerisce tutta una serie di riflessioni sia sul piano dei rapporti uomo-donna che su quello strettamente estetico del contributo originale o meno che la Garufi ha portato alla composizione dell’opera in questione, in termini di autonomia di scrittura e di stile. È stato giustamente osservato, nel presente volume, l’«isolamento» di Pavese. Ma, parimenti, è stato sottolineato come, financo nel romanzo del confino, Il carcere, emerga un «sorriso ambiguo», anche se esso, progressivamente, si trasforma in un «sorriso morto». È vero: Pavese ha avuto una visione tragica della vita, che ha ereditato dai classici e che lo ha portato alla conclusione drammatica della sua travagliata esistenza. Egli, al pari dei tragici greci, ha ingaggiato un “corpo a corpo” col mondo, un eterno conflitto con la «realtà rugosa». Da questo conflitto è nata un’opera poderosa, frutto di quel «fare», protratto sino all’ultimo istante di vita, che il suo allievo prediletto, Italo Calvino, ha saputo mettere in risalto. Questo sforzo creativo ha rappresentato – anche qui leopardianamente – la sua «protesta della vita», alla quale è subentrata la «protesta della morte». E allora possiamo concludere, con riferimento a Pavese, richiamando quel che Francesco De Sanctis ha scritto a proposito di Leopardi: egli, parlandoci della morte, ci ha fatto amare la vita.
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